intervento Enea Boria

intervento Enea Boria, del consiglio nazionale di Programma 101

SEMINARIO SULLA DEMOCRAZIA DIRETTA

Ringrazio gli amici e le amiche del PU e in particolar modo Valerio Colombo per avermi voluto invitare a questo vostro seminario.
La democrazia diretta non è un argomento che frequento abitualmente e probabilmente quello che sono in grado di dire in proposito è molto arretrato concettualmente rispetto alla vostra elaborazione, che viene da molto più lontano ed è molto più approfondita.
Spero di riuscire ugualmente a offrire qualche spunto interessante, cercando di problematizzare la questione sia dal punto di vista del contesto sociale nel quale nuove forme di democrazia diretta dovrebbero essere applicate, sia cercando di realizzare una riflessione sul tema del partito, come strumento per perseguire un cambiamento sociale che renda le persone maggiormente partecipi, con un occhio di riguardo rispetto alla crisi del partito tradizionalmente inteso.

TEORIA DELLA SEPARAZIONE DEI POTERI

Penso che una prima riflessione che si rende necessaria consista nel comprendere quali siano gli spazi di concreta agibilità della democrazia diretta.
E’ infatti molto semplice ritenere che l’epoca della comunicazione, nella quale viviamo, renda incomparabilmente più semplice applicare forme di consultazione diretta delle persone da trasporre nei processi decisionali della politica.
Decidere in proposito a qualsiasi argomento, infatti, presuppone non soltanto una rapida e semplice possibilità di esprimersi, cosa in effetti oggi molto più semplice, ma una conoscenza diffusa del tema e la preliminare possibilità di aver approfondito le questioni inerenti avendo avuto accesso a fonti ufficiali, precise, complete, e a pareri sia di parte che indipendenti autorevoli e dichiarati come tali ( mascherare fonti di parte come indipendenti sarebbe già una forma di manipolazione ).
L’epoca della comunicazione rende infatti disponibili enormi moli di dati, ma non è sempre semplice chiarire della loro autorevolezza e credibilità.
La necessità di dover risalire a fonti originali o accedere a analisi riconosciute come autorevoli dalla comunità scientifica, a conti fatti, fa si che informarsi non sia in realtà molto più semplice che un tempo e i media generalisti continuano quindi ad avere un importantissimo ruolo di indirizzo nel plasmare quella che possiamo definire come opinione pubblica.
La decisione politica, che sia attraverso la forma rappresentativa tradizionale o che avvenga attraverso forme di democrazia diretta, è la trasposizione in fatti e decisioni prese in ambito politico/istituzionale di una opinione pubblica maggioritaria.
Proprio il fatto di vivere nell’epoca della comunicazione ci impone di riflettere sulla necessità di riaggiornare la Teoria della Separazione dei Poteri che ci arriva da Montesquieu.
Tutte le democrazie, nell’occidente industrializzato di cui siamo parte, almeno nominalmente si fondano sull’idea che lo Stato sia composto da un potere esecutivo, un legislativo e un giudiziario, che devono essere indipendenti l’uno dall’altro e che si controllino a vicenda per impedire eccessive concentrazioni di potere che comprometterebbero il concetto stesso di democrazia e per impedire utilizzi impropri delle istituzioni da parte di soggetti ( o cordate di potere ) che perseguano interessi personalistici o ristretti ai danni della comunità che ha dato loro mandato.
Per decidere però chi faccia parte delle assemblee elettive, o bypassando del tutto la questione delle assemblee elettive immaginando che le persone si esprimano direttamente, si pone il problema dei media e dei canali di informazione che concorrono a plasmare l’opinione pubblica.
I media sono essi stessi un potere, perché plasmano questa opinione.
Manipolando dati, o comunque indirizzando le conclusioni che le persone possono trarne anche solo attraverso la retorica o determinate scelte comunicative, soggetti singoli o cordate di potere ristrette possono indurre percezioni distorte della realtà, indirizzare il dibattito pubblico in direzioni non realistiche, indurre grandi quantità di persona ad esprimersi, votare, scegliere, contro il proprio stesso interesse.
La questione è in realtà molto più grave e ampia del mai risolto conflitto di interessi che ricordiamo dai recenti tempi in cui Berlusconi era al governo.
Del resto anche il governo attuale molto si avvantaggia dall’avere buona parte delle TV completamente supine rispetto ai propri scopi politici.
Penso anche a Colin Powell che giustificava una guerra sventolando una provetta contente Sarin davanti all’assemblea dell’ONU, quando in realtà il Sarin non c’era mai stato nella zona incriminata e in seguito bombardata; tutto questo legittimato dal fatto che il governo inglese aveva fatto diffondere una informazione fasulla in proposito, fondata su un rapporto dei servizi segreti che non c’era mai stato, cosa che l’ex premier Tony Blair ha anche recentemente ammesso.
Dov’è una opinione pubblica che chieda che questi pubblici decisori che hanno avuto importanti incarichi istituzionali, siano condannati per crimini contro l’umanità e per aver plagiato l’opinione pubblica fornendo informazioni false, mentendo sapendo di mentire?

Si può giustificare una guerra presso l’opinione pubblica semplicemente gestendo l’informazione.
Come vedete quindi avere una opinione pubblica non è semplicemente un fatto in sé.
I Media sono un potere dello Stato e la teoria della separazione dei poteri – quindi la teoria stessa dello Stato – necessita di essere aggiornata.
Fin quando non avremo fonti di informazione sorvegliate ma indipendenti dal potere esecutivo, legislativo e giudiziario, avremo una opinione pubblica tremendamente manipolabile, sia nel caso in cui ricorressimo ancora a forme di democrazia rappresentativa sia nel caso ricorressimo a forme di democrazia diretta; caso nel quale forse, peggio ancora, potremmo addirittura incorrere in derive di natura plebiscitaria.

IL FALLIMENTO DEI PARTITI TRADIZIONALI

Nel modello della democrazia rappresentativa al quale siamo abituati qualcosa ha evidentemente fallito.
Definire esattamente cosa sarebbe un compito improbo e impossibile da risolvere in un singolo seminario, inoltre le responsabilità non potrebbero essere limitate ad un singolo ambito d’indagine coinvolgendo tutti gli aspetti della vita sociale e culturale.
Bisognerebbe indagare come si siano sviluppate le strutture sociali, i modelli produttivi, i rapporti di produzione e la legislazione che li riguarda che altro non è che una cristallizzazione in forma di elaborazione giuridica dei rapporti di forza che animano la tensione tra interessi confliggenti nella società.
Bisognerebbe poi chiedersi in che direzione sia andata l’elaborazione culturale e come i suoi sviluppi siano giunti e siano stati metabolizzati dall’opinione pubblica; come pezzi di saperi specialistici siano percepiti da chi specialista non è.
Un compito enorme che coinvolgerebbe storici, sociologi, economisti, filosofi; un compito di fronte al quale mi sento inadeguato e impotente.
Una piccola riflessione però posso formularla rispetto al fallimento del modello tradizionale dei partiti che hanno gestito la decisione politica e la rappresentatività nella forma della democrazia rappresentativa.
Sicuramente si tratta di una crisi che ha radici lontane.
Il punto del crollo credo sia stato quello in cui è iniziata la cosidetta “fine della storia”, come è stata definita da F. Fukuyama.
Il secondo dopoguerra ha visto il mondo diviso in due blocchi: pochi paesi non erano allineati ma si posizionavano ugualmente in funzione di quella che era la linea di attrito tra questi due blocchi che rappresentavano visioni del mondo tra loro alternative.
Pur richiamandomi ad una ideologia che si riconosceva nel blocco che nella nostra parte di mondo era considerato “il blocco del male” dico subito che non credo ci sia spazio per alcun rimpianto.
Il capitalismo non credo abbia vinto, credo piuttosto sia sopravvissuto al meritato suicidio di un socialismo reale che aveva finito per non avere quasi più niente di difendibile.
Ma la risoluzione di questa tensione ha ugualmente tremendamente impoverito il mondo intero e le opinioni pubbliche in tutto l’occidente industrializzato.
Non esisteva più nessuna discussione su come la società dovesse essere organizzata, esisteva soltanto amministrazione dell’esistente che ha in seguito assunto la forma di drammatico aumento delle sperequazioni sociali e in particolar modo, nel nostro continente, di smantellamento del modello sociale europeo che era stata il frutto delle socialdemocrazie avanzate e delle costituzioni repubblicane frutto dell’antifascismo in Europa, nel quale le venature di socialismo erano chiaramente visibili e che sono oggi poste sotto attacco dall’Unione Europea, che è pur sempre una forma istituzionale pienamente inscritta nell’idea della fine della storia, quella per cui tutto è mercato e l’unico spazio di decisione riguarda il come gestirne la dimensione commerciale.
Quando questa idea si è imposta, si è dissolta all’interno dei partiti qualsiasi tensione etica e morale da parte delle forze politiche antisistemiche a voler cambiare il modello sociale e da parte delle forze di governo in Italia a volerle difendere e conservare rispetto ad una ipotesi ritenuta peggiore; così l’intero sistema politico si è consociato all’interna della medesima idea di gestione dell’esistente, essendo stato per 20 anni il berlusconismo e l’antiberlusconismo solo una foglia di fico e una scatola vuota.

I partiti però continuavano ad essere ciò che erano come struttura di potere.
Ma senza più uno scopo finalizzato ad un mutamento della società.
Per questo i loro grossi apparati organizzativi e burocratici, in particolar modo a sinistra, non avendo più l’ambizione a diventare uno stato che sostituisse lo stato esistente, sono diventate pletoriche organizzazioni dedite soltanto a preservare sé stesse rendendo labile il confine tra il partito e la cosa pubblica, tra il partito e le istituzioni.
Quindi quelli stessi soggetti che contestavano l’occupazione della cosa pubblica da parte dei partiti di governo sono diventati parte integrante di questa corsa alla lottizzazione e alla spartizione e l’apparato partitico, privo ormai di tensione etica e morale verso il cambiamento, è diventato autoreferenziale.

Una volta si acquisiva responsabilità nel partito sulla base della capacità, in seguito erano solo interessi ed agganci a determinare chi dovesse avere responsabilità.
Questo congiuntamente allo svuotamento di ogni funzione di studio e formazione dei quadri di partito: come giustificare altrimenti la pretesa di non voler più cambiare un bel niente ma solo di gestire l’esistente?
Distorsioni e disfunzioni da indagare sarebbero state tantissime, ma un partito non più teso a cambiare la società è meglio che insabbi queste stesse problematiche.
Da cui la mancanza di formazione, la disaffezione allo studio delle dinamiche sociali, l’imporsi di un modello di partito leggero che non forma più spirito critico nel cittadino che si accosta alla politica per cambiare il futuro, suo e della collettiva, ma il partito-struttura-organizzativa senza più base sociale, a disposizione di cordate di potere e interessi economici, nazionali e locali, per occupare le istituzioni e servirsene pro domo propria.

Una ricerca della Uil pubblicata sul Il Fatto Quotidiano e ripresa da numerosi altri quotidiani nell’ottobre del 2013 ci dice che in italia quasi un 1.200.000 persone “traggono dalla politica una fonte durevole di guadagno”
Ricerca da prendere con le pinze perchè strumentalizzabile al fine di screditare le istituzioni e ad alimentare opinione infondate sui costi della politica stessa, cosa che vediamo applicata dal governo Renzi e spesso purtroppo anche applaudita da forze di opposizione come m5s, che applaudono al taglio delle assemblee elettive, e quindi al taglio della rappresentatività, in nome di un risparmio irrisorio.
In realtà gli sprechi operano su un altro piano.
i Cda delle aziende pubbliche ammontano, infatti, a 24.432 persone; si sale a 44.165 per i Collegi dei revisori e i Collegi sindacali delle aziende pubbliche; 38.120 sono quelli che lavorano a “supporto politico” nelle varie assemblee elettive. I numeri fondamentali della ricerca sono riscontrabili nelle due ultime voci, quelle decisive: 390.120 di “Apparato politico” e 487.949 per “Incarichi e consulenze di aziende pubbliche”
Relazionandoci con vari esponenti dei partiti tradizionali a ciascuno di noi sarà capitato di pensare “ma come puoi sostenere simili balzane tesi? Almeno ti pagano per farlo?”
Il dramma è che, spesso, la risposta a questa domanda è: SI.

A questo problema si aggiunge anche il problema della delega all’interno dei partiti stessi.
Esso certamente era necessario quale strumento di selezione del personale politico sulla base della capacità in epoca in cui i partiti erano di massa e di massa erano anche impegno e militanza mentre le forme di comunicazione non erano avanzate come adesso.
Nel tempo è però diventato lo strumento attraverso il quale gli apparati hanno blindato la propria autoreferenzialità.
Congressi molto distanti nel tempo, signori delle tessere, uomini di apparato con interessi economici e di potere che reiterano sé stessi.

Continuo a credere nel partito come strumento per cambiare nella società e continuo a credere nella necessità di avere un gruppo dirigente che abbia per un determinato tempo la facoltà di prendere rapidamente decisioni.
Credo perciò che proprio l’aggiunta di utilizzo di forma di democrazia diretta sia necessaria per placare questa forma involutiva e autoreferenziale, restringendo gli spazi di delega impedendo quindi che la delega stessa diventi una cambiale firmata in bianco, e che la revisione politica debba essere molto più serrata nel tempo.
Rivedere la linea ogni anni, invece che aspettare tra anni per fare un congresso ordinario, e confermare le cariche anche da casa senza delega intermedia, potrebbe essere un modo per salvare il partito come strumento per autorappresentarsi e cambiare la società.
Senza illudersi però che la forma movimento e le piattaforma informatiche siano una automatica soluzione, perché dipende da come le si usa ( democraticità del m5s? )

Apro anche una piccola parentesi su quella che credo essere la necessità di riformare lo strumento del referendum quale strumento di democrazia diretta già in uso.
Esso è sicuramente diventato uno strumento sempre meno potente perché spesso se ne è abusato in maniera impropria, dovrebbe essere circoscritto a grandi questione di coscienza e a temi etici nei quali lo strumento della delega risulta inappropriato, invece spesso – i radicali – è stato utilizzato come sostituto al potere legislativo ordinario.
Questo ha provocato disaffezione e spesso non è stato raggiunto il quorum.
Credo che il vaglio di costituzionalità dei quesiti dovrebbe essere preliminare alla raccolta delle firme e credo che impedire abusi e circoscrivere l’utilizzo del referendum a casi di grande interesse sociale il numero delle firme dovrebbe essere raddoppiato, ma a quel punto il quorum dovrebbe essere eliminato per non lasciare la decisione in mano a partiti che sabotano i quesiti o al menefreghismo.
Portando poi le firme ad un 1000.000-1.500.000, si potrebbe pensare anche al referendum propositivo e non solo abrogativo, risolvendo il problema delle leggi di iniziativa popolare che non hanno mai corso perché approdate in parlamento i partiti le seppelliscono nei cassetti delle commissioni.

LA FUNZIONE DELLA SCUOLA SULL’OPINIONE PUBBLICA

La spoliticizzazione di massa indotta dal senso di ripulsa per ciò che sono diventati i partiti e per la sottostante ideologia della fine della storia e il suo portato di contrazione dell’immaginario, esaurimento delle tensioni etiche e morali, ci pone di fronte al problema di capire come creare una ripoliticizzazione di massa del popolo.
E in questo senso è centrale la funzione che la scuola può avere.
La scuola è spazio di formazione di pensiero critico indipendente, abitudine all’analisi dei dati, all’esercizio del pensiero, ed è spina dorsale di una democrazia una scuola pubblica che fornisca a tutti gli strumenti per potersi fare un’opinione.
Questa cosa era già stata detta negli anni ’50 da Piero Calamandrei, uno dei nostri padri costituenti, nel famoso discorso sulla scuola.
A questo si aggiunge ciò che ha detto Italo Calvino, e vale la pena di citarlo:
“Un Paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano, o i costi sono eccessivi. Un Paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere.”

Non avremo alcun margine per introdurre più ampi elementi di democrazia diretta nella gestione della res pubblica se non difenderemo la scuola pubblica come luogo di maturazione della cittadinanza e di formazione di indipendenza di pensiero, e questo spiega anche perché dall’inizio degli anni ’90, da quel punto di rottura di cui abbiamo parlato, la scuola pubblica sia stata costantemente sotto attacco e sottoposta a sempre più pesanti restrizioni di bilancio.

Cosa fare?
La mia idea è quella di sostituire l’ora di religione già nelle elementari fino alle medie inferiori e alle superiori, con 4 ore settimanali di scienze sociali, naturalmente obbligatorie.
Non dottrina cattolica, ma storia delle religioni, con un insegnante di filosofia.
Cosa necessaria anche a gestire la civile convivenza in un paese inevitabilmente sempre più multiculturale.
Ma anche, nel corso degli anni di studio, i fondamenti del diritto costituzionale e del diritto pubblico, cioè delle ore di educazione civica fatti come si deve, i fondamenti dell’economia politica cosicché i cittadini non possano più essere presi in giro come nel corso di questi anni con la panzana della “austerità espansiva”, eccettera.
Oltre,  naturalmente, al fatto di investire tanti soldi in pubblica istruzione invece che far quadrare i bilanci tagliando continuamente.

Perché serve il partito?
Perché il potere, per reiterare sé stesso, tutto questo non lo farà mai.
E quindi non avremo il substrato culturale di massa per democrazia diretta; impedirlo è un loro scopo precipuo.
Prima di poter fare a meno del partito occorre il partito per creare le condizioni per poterne fare a meno.
So che sembra un gatto che si morde la coda, ma dovendo problematizzare le questioni, questo problema mi sembra ineludibile.
Del partito non possiamo ancora fare a meno, ma già sapere quali siano le sue problematicità intrinseche è un discreto passo in avanti.

POPULISMO E PLEBISCITARISMO

Le istituzioni e i partiti nel corso di questi anni hanno sempre più denunciato come “populismo” qualsiasi istanza politica si scontrasse con il loro interesse alla propria preservazione.
Il paradosso è che i partiti oggi presenti in Italia, pur in vario modo, sono tutti partiti populisti.
E il problema è che pur essendo populisti nessuno di loro è popolare.

Il populismo può essere oggi uno strumento comunicativo per creare una ripoliticizzazione delle persone, ne sono convinto, ma si tratta ugualmente di capire come servirvene con estrema cura.
Avendo interlocutori sociali spesso molto spoliticizzati occorre capire come semplificare i concetti, una semplificazione populista appunto, che sarà anche popolare se saprà rappresentare la contrapposizione di interessi tra un noi e un loro nel quale il noi sia un popolo sempre più escluso, non rappresentato, sfruttato e vessato e un loro che su questo sfruttamento si arricchiscono facendo diventare il divario sociale sempre più ampio ed incolmabile.
Una riformulazione in pratica della vecchia contrapposizione tra destra e sinistra in una contrapposizione tra alto e basso all’interno della società.
Sottile però è il confine tra semplificazione e mistificazione, e quindi tra populismo e demagogia.
In questo senso il populismo come forma di ripoliticizzazione di massa e come strumento per arrivare anche a forme di democrazia diretta, è da trattare con le pinze.
Non perdendo di vista il limite rischioso tra populismo e plebiscitarismo.

Gli esempi che possiamo fare rispetto alla nostra società e al nostro quadro politico son questi:

Renzi è il populismo rappresentante della società per bene e ripulita pur essendo un rozzo ignorante, un guitto che però riesce a far appello ad una medio alta borghesia che prova, come descritto da Owens, un sommo disprezzo per la popolana rozzezza dei “Chavs” cioè del comune lavoratore o lavoratrice, di chi non cita Marcuse, di chi deve faticare per sbarcare il lunario e spesso oggi è disoccupato, di chi in generale non ha avuto quel successo il cui stereotipo rampantista come paradigma esistenziale si è traslato in blocco dal craxismo prima, al berlusconismo poi ed al renzismo oggi.
Grillo: un populismo “gentista” essenzialmente ancora senza un vero scopo, arenato nella palude della rivendicazione di onestà e competenza che però non è uno sbocco politico in un progetto di reinclusione sociale dei soggetti oggi esclusi.
Salvini: una falsa soluzione con nulla di nuovo nella storia, la cui retorica si risolve tutta nella ricerca di un qualche elemento spurio esterno alla comunità da colpevolizzare che avrebbe determinato un peggioramento della condizioni di vita del popolo; vuoi una moneta straniera senza seriamente indagarne i meccanismi di funzionamento, vuoi gli immigrati indicati direttamente come nemici e non come vittime strumentalizzate dagli interessi del nemico.

GLi elementi che accomunano questi 3 populismi sono la centralità del leader ed il rapporto diretto leader-massa, tanto nel Grillo che si sa fare unico interprete della volontà del popolo, quanto nel Salvini che gira tutta l’Italia per dare un capro espiatorio in pasto a chi avendo paura del futuro per ragionevoli motivi è spinto dal desiderio di cercare un capro espiatorio  cui poter dare la colpa, ed infine il Renzi che, come ai tempi del ventennio, cerca di farsi attraverso i media rappresentante e tribuno del popolo attraverso la rappresentazione della sua “ira”. ( per ogni disservizio immediatamente titoli giornalistici su Renzi “irato”, nonostante spesso i disservizi dipendano dallo stesso tipo di politiche che lui promuove. Ricorda molto il refrain de “il duce sarà informato di questo” quando qualcosa non andava bene sotto il fascismo; logica che permetteva di scaricare la colpa di ogni male sociale su qualche non solerte funzionario rispetto ad un fascismo fondamentalmente giusto, il cui capo integerrimo avrebbe riaggiustato tutto, una volta informato del problema e punito individualmente il colpevole ).

Populismi non popolari ma che virano verso la demagogia, rivolti alla personalizzazione della politica e quindi al culto del leader, nostra caratteristica pericolosa come italiani, e tesi a consolidare il proprio potere col plebiscitarismo, che è la deriva autoritaria della democrazia diretta, in ultima istanza.
Questi elementi critici non possono essere ignorati.
Non sono motivi per non volere maggiore democrazia diretta, ma sono elementi che ci suggeriscono che il terreno è minato e bisogna stare sempre molto attenti a dove si appoggiano i piedi.

EVOLUZIONE SCIENTIFICA, TECNOLOGICA E MUTAZIONI SOCIALI

Questo è l’ultimo tema del quale cercherò di parlare, in maniera brutalmente sintetica.
Gli strumenti tecnologici e comunicativi possono rendere una auspicabile maggiore democrazia diretta come maggiormente a portata di mano ( internet e strumenti di comunicazione in generale ) ma non dobbiamo perdere di vista che evoluzione della scienza e della tecnologia, comportano anche mutazione dei rapporti di produzione e quindi delle strutture e dei rapporti sociali.
Sotto questi punti di vista la società sta attraversando grandi mutamenti.
La spoliticizzazione di massa, che è il contrario di ciò che serve per arrivare alla democrazia diretta, non è solo figlia della involuzione del modello del partito tradizionale e dell’occupazione della cosa pubblica da parte di cordate di potere.
E’ figlia anche di questa mutazione nei rapporti di produzioni, cui il modello dello stato sociale non ha saputo e non ha voluto adeguarsi aggiornandosi.
Scomparso lo stato sociale, con l’aumento della cosidetta “disoccupazione tecnologica” abbiamo creato sacche di esclusione sociale sempre più ampia che covano ormai non più ambizione di cambiare la realtà, ma solo livido rancore per chi la amministra ( e son facili preda dei populismo demagogici cui ho accennato in precedenza ).

Nel futuro queste questioni da gestire potrebbero presentare criticità ancor più immediate e acute.
Noi stiamo infatti vivendo la “decrescita infelice”, in parte per ripristinare condizioni per cui il capitale possa tornare a lucrare ampi profitti, quindi distruzione ciclica di forze produttive, in parte perché queste crisi sono anche strumenti per ridefinire i rapporti tra le classi sociali e stiamo tornando, infatti, ad una brutale esclusione dei più poveri dall’avere un qualsiasi ruolo sociale.
Una crisi economica quindi, può essere anche un’occasione per qualcuno: non sono in gioco soltanto affari ma anche l’autoreferenzialità nell’esercizio del potere.
Dobbiamo ricordarci che entro 30 anni, forse meno, avremo sia il picco del petrolio sia, piuttosto probabilmente, la disponibilità di una nuova fonte di energia, rinnovabile e a basso costo, la fusione nucleare, per la quale i problemi di realizzabilità sul piano tecnologico sono in via di soluzione ( ITER a Marsiglia ).
Le produzioni cambieranno natura a secondo della disponibilità energetica, oltre che per vari motivi anche per i limiti ambientali che abbiamo già troppe volte e troppo a fondo violato.
Se immaginiamo una società, tra pochi decenni, nella quale l’energia sarà quasi indefinitamente disponibile a prezzi bassissimi dobbiamo anche immaginare una società nella quale il lavoro non sarà certo scomparso ( sono contrarissimo alle ideologie sulla fine del lavoro, anche quella da sinistra, come i negriani, dei quali ho pessima opinione ) ma si sarà ridefinito, nel quale sarà normale avere fabbriche al cui interno neanche vi siano le luci come in vari stabilimenti automobilistici in Corea già oggi.
Il manifatturiero sarà quasi intergralmente automatizzato, e il lavoro sarà per lo più creativo, socio assistenziale, agricolo ma con modalità sempre più evolute, etc.

Questa evoluzione però, se non sarà accompagnata da una evoluzione del pensiero e di una idea diffusa di umanesimo che abbia soppiantato l’ideologia postmoderna oggi dominante, quella della postdemocrazia nella quale non c’è più scelta ma solo gestione tecnica, l’ideologia del liberismo che è infine ideologia della diseguaglianza, rischia di creare una umanità distopica nella quale le maggiori possibilità di cui disporremo saranno ancor più iniquamente distribuite.
Avremo da una parte una ristrettissima quantità di persone del tutto sollevate dal bisogno di lavorare, che potranno godere di cure mediche che potranno sensibilmente allungare la loro vita e dall’altro lato una massa di bruti esclusi da tutto che proprio per lasciare spazio ai primi in un pianeta già sovrappopolato, dovranno pure morire alla svelta.

La fine del paradigma della scarsità, sul quale si sono sempre fondate le scienze economiche e sociali, potremmo perdere di senso.
Ma senza un’idea di umanesimo completamente diversa da quella oggi imperante questa possibilità potrebbe anche diventare un incubo.
La fine del paradigma della scarsità e la democrazia diretta potrebbero essere un meraviglioso esito per l’umanità, e potremmo anche considerare questa prospettiva come una prospettiva di socialismo realizzato, ma come potremo arrivarci senza un partito che abbatta l’ideologia della diseguaglianza oggi imperante in un contesto nel quale l’umanità non è ancora matura per agire la democrazia diretta?

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